LIDIA - Storia di una masca
ORMEA, mercoledì 24 luglio ore 21, 
piazza Angelo Nani

Breve sinossi

La storia di Lidia viene raccontata da Lidia stessa al Giacu, suo marito partito per la guerra e mai tornato, e ripercorre tutta la sua vita fino al momento in cui da quella vita si allontana.
Nata povera da madre levatrice Lidia vive una vita che nel numero di storie raccolte purtroppo non si può definire straordinaria, è anzi estremamente comune, salvo il particolare appena meno comune (ma non così raro) di essere accusata di essere masca, accusa lanciata dal paese, che è di fatto un personaggio a molte teste, prima sottovoce, poi in faccia, persino dal prete, e a queste accuse lei arriva a credere, che ci creda a ragione o meno sta a chi ascolta. Nel momento stesso in cui l'accusa di masca mette radici in Lidia, prende forma come vivo un altro elemento, il bosco, di fatto anch'esso un personaggio, a cui Lidia finirà per cedere. Contro ogni sua previsione il bosco si rivela essere quella condizione liberatoria mai raggiunta altrove, in cui nulla le viene imposto e le viene concesso l'accesso alla parte più fonda di sé stessa, alla parte di bestia, alla parte che grida senza che sia sconveniente, e a quella parte lei si abbandona fin dove può. Lidia ha un figlio. Il figlio non è con lei, è andato via, lei lo ha mandato via spaventata dal bosco e dal paese, e il figlio del paese è diventato. La legge del paese e quella del bosco sono differenti riguardo ai figli: la prima ti chiede di essere madre a vita, di crescere il figlio finché lui non sia in grado di prendere le redini e decidere per sé e, nel caso di un maschio, anche per te; la seconda chiama figlio chi succhia il tuo latte, finché lo succhia, per poi lasciarlo al mondo e andare avanti. Il ritorno del proprio figlio lascia Lidia in mezzo, perché un figlio al paese non le permette di abbandonarsi al bosco ma un figlio che ormai è del paese, che non succhia più il suo latte, non le appartiene più. Lidia sceglie il bosco. Sceglie di liberare sé stessa. Lidia è una storia che parla di libertà.

La scelta
note dell'autrice
La scelta di scrivere la storia di Lidia è stata graduale, quasi naturale. Nel trovarmi per le mani le interviste sbobinate di donne e uomini della campagna e della montagna del Piemonte, raccolte da Nuto Revelli nel corso degli anni '70, ho trovato vergognoso che alla mia
generazione di quelle storie così vicine non sia arrivato nulla. Il solo fatto di aver avuto la fortuna di trovarle mi ha fatta sentire  responsabile di restituirle, perché sono storie che non vengono raccontate, non sono abbastanza avventurose, abbastanza interessanti, raccontano di una miseria che chi ha vissuto non vuole ricordare, ed è stato spiazzante per me sapere come viveva mia nonna, la mia bisnonna, e rendermi conto che non ne avevo la minima idea.
Avevo appena riletto le baccanti e in quelle storie femminili di settant'anni fa sentivo lo stesso bisogno di “liberarsi dal giogo del telaio”, mi sono chiesta se non fosse una costante.
Sono andata a cercare materiale di storie dell'arco alpino, storie della tradizione di streghe e storie recenti di donne, e mi si è spalancato davanti un mondo così vasto e così vivo che ho tormentato chiunque avesse la sfortuna di incontrarmi con i racconti che avevo raccolto, fino a rendermi conto che se per me era così importante raccontare questa storia allora forse valeva la pena raccontarla davvero. Ho fatto ricerca per sei mesi prima di scrivere, passando dalla memoria contadina alle favole alpine fino ai documenti di inquisizione del tribunale di Udine, creando il più possibile un mondo in cui riuscissi ad orientarmi chiaramente, tormentando mia nonna, amici cresciuti in montagna, chiunque potesse darmi materiale recente e vivo. Dalle storie di vita che ho trovato è nata Lidia, il cui linguaggio è nato
spontaneamente durante la scrittura, che racchiude in qualche modo tutte le donne la cui storia ho avuto la fortuna di toccare e ho il dovere di raccontare. Altrettanto ho sentito il bisogno di passare per la strega alpina, per quel canto di liberazione che rappresenta, questa figura meravigliosa che appartiene alla terra, la donna bestia che fa paura (o l'uomo bestia, in alcuni casi) ma che può guarire. Mi sono trovata per le mani un mondo così ricco che davvero non potrei parlare d'altro, e Lidia è venuta fuori spontaneamente, come se fosse una storia che aspettava di essere raccontata, e io penso che lo meriti.

Lidia nasce donna e muore cinghiale. Lidia è una bambina, una ragazza, una moglie e una madre trascinata e contesa dalle potenze del suo mondo, il paese e il bosco, che lottano per tenerla all'interno dei propri confini. Lidia è una levatrice e una guaritrice e, come sua madre prima di lei, viene accusata di essere una masca, una strega. Ma se da una parte lei lotta per non essere travolta e distrutta dalle accuse della superstizione, dall'altra intorno a lei si muovono forze che di razionale hanno ben poco.
Succedono cose intorno a lei: ci sono animali che sbucano dal nulla mentre lei guarisce i malati e, mentre il bosco sembra stringersi sempre di piu' intorno la sua casa, una signora dai lunghi capelli neri compare a ritmi regolari nella sua vita.

Progetto e fonti
Lidia è una donna italiana, una contadina, una poveretta, vissuta a cavallo della prima guerra mondiale. È una levatrice, come sua madre prima di lei, e come sua madre prima di lei viene accusata di essere masca, sarebbe a dire, per quanto non sia totalmente esatto, strega.
La storia di Lidia raccoglie tante altre storie di donne che come lei hanno dovuto arrangiarsi per vivere, di donne il cui mondo cominciava col paese e finiva dove iniziava il bosco, e dove il prete era la voce dell'autorità, della verità e soprattutto di Dio. Recupera la memoria storica di un mondo che a ben pensarci non è poi così distante, è il mondo delle nostre bisnonne, dove la fede e la superstizione si mescolano, la fatica è tanta, i figli muoiono perché è così che capita e a sei anni sei tenuto a contribuire al lavoro della famiglia, vieni affittato come servo e togli una bocca alla casa, a quattordici sei un adulto, a sedici sei da maritare.
Il recupero di memoria è l'humus necessario alla storia di Lidia, che nasce, e non c'è punto più distante, dalla tragedia delle Baccanti. Attraverso la lente della menade si è voluta indagare la condizione di repressione della donna, che nello slancio irrazionale, ferino, trova la sua liberazione necessariamente dolorosa, perché il taglio dei ponti con la società che ha represso la donna impone di recidere legami anche profondi come quello filiale, laddove il figlio appartenga più alla società che alla madre. Dalla storia di Agave si è indagata questa
condizione di liberazione ferina riportandola sul territorio italiano, andando a recuperare i miti della strega dell'arco alpino, dal Piemonte al Friuli, e trovando una ricchezza di tradizione profondamente differente da quella anglosassone che, paradossalmente, è quella più
conosciuta oggi, e altrettanto differente dalla tradizione filtrata dalla chiesa cattolica e dalla sua inquisizione. È una tradizione slegata dal demonio e dagli inferi, laddove abbia collegamenti religiosi si tratta sempre di soggetti che giurano di “pugnare il dimonio per l'Iddio”, ma soprattutto la strega Alpina (Krivapeta, Masca, Agana, Cercalunna, Benandante) è una creatura legata al bosco, alla terra, alla bestia, molto più vicina alla menade che non alla strega medievale. A questo punto si delineano due sguardi distinti su questa figura: quello della tradizione orale e, straordinariamente, dei testimoni che giurano di essere masche o benandanti, che della loro condizione raccontano la meraviglia, e quello del paese, del prete, che la collega al demonio.
Le storie raccolte di testimoni che giurano di aver avuto a che fare con le masche sono incredibili in senso stretto, ancora più incredibili quelle di chi masca sostiene di esserlo,ponendo chi ascolta in bilico tra un incredulo buonsenso e la fiducia che si ha in una testimonianza diretta o semi-diretta.
La scelta è stata quella di porre l'ascoltatore nella medesima condizione, ricreando quegli eventi che potrebbero avere una logica spiegazione come no e lasciando al pubblico la decisione di credere o meno alle storie di masche.
Al di la' delle storie della tradizione orale, difficili da collocare cronologicamente, le testimonianze raccolte sono per lo più di un periodo vicinissimo a noi, tra i primi del novecento e la fine degli anni '50, registrate(per quanto riguarda quelle piemontesi) alla fine
degli anni '70, e non solo si parla di masche come di un fatto, ma anche di come le donne identificate come tali, spesso colpevoli di povertà, di saper leggere, di aver lanciato dalla finestra del municipio l'immagine di Mussolini, venissero picchiate, isolate, in un caso
documentato bruciate in piazza (La Miciulina, 1921, bruciata in piazza dal fornaio che sosteneva avesse ammascato la farina).
La tradizione della masca e la condizione della donna si delineano come due storie dipendenti l'una dall'altra, e così nasce Lidia, storia di una masca.
La scelta di collocare in un tempo così cronologicamente vicino la storia di Lidia viene proprio dalla vicinanza delle storie raccolte, che rende difficile ricollocare la vicenda in un tempo più comunemente abbinato alla strega come il medioevo, perché si parla di storie presenti, recenti, tuttora vive, e collegarle a un tempo-non-tempo come il medioevo le snatura, le rende impersonali, quasi mitologiche, quando le donne che hanno composto la storia di Lidia tutto sono meno che distanti. Sono donne vive, dure, profondamente umane, donne che davvero avrebbero potuto essere le nostre bisnonne, e le cui condizioni di vita vengono ormai liquidate come “storia passata”, ma storia passata non è.

La lingua che Lidia parla non è l'italiano, perché le nostre bisnonne non parlavano italiano, neanche erano italiane a dire il vero, erano liguri, lombarde, piemontesi, friulane, e perché le storie di masche non si raccontano in italiano, si raccontano nella lingua in cui sono nate, in cui sono state vissute, che non è l'italiano. Lidia parla una lingua che è un grammelot dei dialetti del nord Italia, avvicinato all'italiano quanto lo potrebbe avvicinare una donna che in italiano non pensa, è una lingua unicamente orale, dove la congiunzione è la parte più complessa della frase e i pensieri escono nell'ordine in cui arrivano, dove le parole legate alla riflessione sono poche e quelle legate al fare sono tante.

Note di Regia
La regia di “Lidia- storia di una masca” è basata in larga misura sulla direzione dell'attrice e l'intenzione è di non essere mai invasiva né preponderante sull'azione scenica. La scelta è stata quella di accompagnare l'attrice durante la narrazione e di intensificarne l'efficacia comunicativa attingendo alla tradizione del racconto orale, della veglia, più vicina al mondo di Lidia, che contribuisce a creare l'illusione di un altro tempo più di quanto potrebbe fare una regia teatralmente più complessa.
La scenografia è di taglio povero e lo spazio sostanzialmente vuoto ad eccezione di un tappeto di foglie secche e qualche ramo ed evocare l'ambiente boschivo essendo il bosco un vero e proprio personaggio con cui Lidia si confronta, che la modifica nell'essenza e nelle azioni che
compie. I pochi oggetti presenti in scena si trasformano e diventano altro unicamente grazie all'immaginazione; così un grembiule diventa un fagotto di stracci a ricordare un neonato tenuto in braccio, un lenzuolo bianco diventa un vestito da sposa. Le luci e la musica seguono la narrazione, la avvolgono e talvolta la anticipano, quasi ad indicare la volontà del personaggio a modificare la direzione del proprio racconto.
Un'ultima precisazione riguarda le musiche dello spettacolo, tutte prese dalla tradizione occitana, che tendono la mano alle fonti di cui si è servita la drammaturga.