Non ha mai capito neppure il significato della parola e perché madre sia l'unica parola a non avere un verbo corrispondente, sonno ha «dormire», cibo ha «mangiare», speranza ha «sperare», ma madre non ha niente. È una parola ferma, senza gambe, non va da nessuna parte, almeno lei la vede così. (p. 43)
Caterina e Claudia, madre e figlia, hanno un rapporto spezzato da anni. Dopo un tragico incidente che ha messo fine alla famiglia inquadrata con cura nella categoria borghese in cui tutto funziona sempre bene, si sono allontanate. Claudia è stata mandata a vivere con la zia e si arma con piercing, tatuaggi e musica a tutto volume nelle orecchie per andare incontro a un mondo che è troppo duro e privo d'amore per un'adolescente; Caterina ha abbandonato la grande villa di famiglia, i completi Chanel in fresco di lana, vive in uno squallido monolocale e non le importa più di sé perché tanto ha perso tutto quello che per lei era importante: l'amore di suo marito Fausto. Ma l'incidente che è alla base della tragedia familiare non è quello che Claudia ricorda e del quale si dà ossessivamente la colpa: ormai adulta e madre lei stessa capisce che è tempo di provare a recuperare ciò che davvero è successo tanti anni prima. Forse non sarà la strada per riallacciare con la madre, ma sarà di certo un modo per farle dismettere l'armatura che la circonda da ogni lato.
Carmela Scotti, finalista al Premio Calvino nel 2014 con L'imperfetta, dopo La pazienza del sasso dove già indagava il rapporto madre e figlia, torna a scavare nel legame che, a differenza di tutti gli altri della vita di una persona, non si può mai tagliare.
«Da una madre non si divorzia, è sempre un conto aperto.» (p. 61)
Non la si lascia nemmeno dopo un'infanzia difficile come quella di Claudia cresciuta, sì, nel benessere economico, ma anche testimone della violenza domestica del padre verso la madre. Non si può tagliare nemmeno se si è cresciute sentendosi rinfacciare la fatica e il dolore del parto ogni giorno, come se fosse stata Claudia ad aver chiesto di nascere. Non si recide neanche dall'altro lato, nemmeno se una donna non ha mai voluto essere madre, come il caso di Caterina, ma si è vista costretta dall'obbligo sociale e, soprattutto dal disperato desiderio di compiacere il marito che lei amava, nonostante le violenze, con tutte le sue forze. Il romanzo, costruito su due voci narrative – quella di Claudia e quella di Caterina – che ricostruiscono il passato e provano a sbrogliare il nodo gordiano dei loro sentimenti, non si limita al rapporto materno per quanto sia preponderante. Guarda il rapporto tra Claudia e Vio che sono come sorelle pur non essendolo di sangue; mostra quello tra Claudia e la zia Dora che le è madre in tutto tranne che nella genetica; e ancora rapporti che si costruiranno nel corso del tempo e che saranno di maternità-paternità-sorellanza e riusciranno al meglio proprio quando non lo saranno ufficialmente.
Ma il sentimento che permea tutto il romanzo e che il titolo riassume alla perfezione è l'autoindulgenza con cui i personaggi assolvono se stessi.
Caterina va dietro ai desideri del marito definiti "di roccia" rispetto ai suoi "di polvere". Lei che voleva solo l'amore di Fausto deve assecondare la sua volontà di avere un figlio e, quando l'impresa si rivela ardua per una scarsa fertilità di lui, lei impara a nascondere con il fondotinta i lividi e a non lamentarsi per le costole rotte. Ci sono momenti in cui quasi impreziosisce le violenze definendo le dite di lui intorno al suo collo come un "collier di Bulgari" che si adatta alla perfezione alla sua pelle. Come può capitare alle donne vittime di abusi, Caterina trova giustificazioni per il comportamento di lui ed è pronta a tutto pur di guadagnare un momento di attenzione e amore totale, anche a tentare il suicidio. La figlia è solo un altro mezzo per ottenere quell'amore e un cospicuo assegno messo da parte per quando sarà grande la aiuta a venire a patti con la situazione.
Come si sente Caterina? Come una che non ha mai accesso alla sua verità, ma deve ricostruirla attraverso la vita degli altri, come se non avesse nulla da provare e tutto da mettere in scena. (p. 90)
Se è vero che non c'è un manuale per essere genitori, è altrettanto vero che non ne esiste uno per fare le figlie. Claudia, una volta affidata a zia Dora, cresce nel più totale desiderio di protezione e autodistruzione insieme. Protezione data dalle sue armature fisiche e musicali e, quando sarà più grande, dal suo negozio di cactus e autodistruzione con alcol e droghe che sono l'unico mezzo che ha per cercare di andare avanti. L'essere supportata in maniera quasi acritica da Vio, la sua migliore amica, e dalla zia Dora la aiuta ad autogiustificare tutto quello che fa.
Zia Dora, che pur aveva intuito dei comportamenti del padre di Claudia, non si è mai immischiata. Emilio, l'amante di Caterina, si è fatto cieco di fronte a una verità tanto lampante da poter essere ignorata solo con il paraocchi.
Questo "del nostro meglio", questa autoindulgenza non è però uno scarico di responsabilità, non è autoassolutoria. È solo uno strumento che i personaggi usano per poter andare avanti. È l'ultima barriera dell'armatura, quella che resta quando tutto il resto è stato smantellato. Senza questa non avrebbero alcuna possibilità di sopravvivenza. Chi legge può domandarsi perché zia Dora non sia più ferma, perché Caterina non alzi la testa, perché Claudia carichi la figlia Nina del ruolo di supporto emotivo non adatto a una ragazzina, ma, in fondo, capisce il perché. Perché tutti, persone reali e personaggi immaginari, abbiamo bisogno dell'armatura dell'autoindulgenza per perdonare e perdonarci. Anche se non sempre è sufficiente, facciamo tutti del nostro meglio.
Giulia Pretta